LA CORTE DI APPELLO

    Ha  pronunciato  la  seguente  ordinanza  nel procedimento penale
contro  Zolin  Ezio,  Zolin  Maurizio e Ronco Laura, assolti in primo
grado con sentenza in data 17 dicembre 2003 pronunciata dal Tribunale
in  composizione  monocratica di Torino, sez. dist. di Susa, sentenza
contro   la   quale  il  procuratore  generale  ha  proposto  appello
principale  e  la  parte  civile  Rey  Corrado  ha  proposto  appello
incidentale.
    Premesso  che  all'odierna  udienza  la  difesa degli imputati ha
chiesto  dichiararsi l'inammissibilita', ai sensi dell'art. 10, comma
2,  della  legge  20  febbraio 2006, n. 46, dell'appello proposto dal
procuratore  generale;  e  che  questi, opponendosi, ha sollevato una
questione di legittimita' costituzionale della citata norma;
    Sentite le parti,

                            O s s e r v a

    1. - Viene proposta questione di legittimita' costituzionale - in
riferimento  agli  art. 3  e 111 Cost. - dell'art. 10, comma 2, della
legge  20  febbraio  2006,  n. 46,  nella parte in cui stabilisce che
l'appello contro un sentenza di proscioglimento proposto dal pubblico
ministero  prima  dell'entrata  in  vigore della legge medesima viene
dichiarato inammissibile con ordinanza non impugnabile.
    2.  -  La  questione  e' rilevante nel presente processo, poiche'
questa  Corte  di appello dovrebbe dichiarare inammissibile l'appello
proposto  dal  p.m.,  in  applicazione della disposizione transitoria
dell'art. 10,  comma 2, legge 20 febbraio 2006, n. 46, trattandosi di
appello  proposto  prima  dell'entrata  in vigore di detta legge; con
conseguente  perdita  di  efficacia  (ex  art. 595,  comma 4  c.p.p.)
dell'appello incidentale proposto dalla parte civile.
    3. - La questione non e' manifestamente infondata, in quanto:
        la  Costituzione  stabilisce,  al  primo  periodo del secondo
comma  dell'art. 111,  che  il processo si svolge nel contraddittorio
delle  parti,  in  condizioni  di parita', davanti a giudice terzo ed
imparziale.
    La  condizione  di  parita'  riconosciuta  alle  parti  non  puo'
intendersi  limitata  alla fase anteriore alla pronuncia del giudice,
giacche',  sia  per comune nozione che per quanto stabilito nel primo
comma del citato art. 111, il termine «processo» indica l'intero iter
attraverso  il  quale  si attua la giurisdizione, fino alla pronuncia
definitiva.
    Poiche'  nel  processo  agiscono  parti  portatrici  di interessi
contrapposti,  la  Costituzione  disciplina dunque come la legge deve
regolamentare l'attribuzione alle parti delle facolta' per far valere
ed eventualmente farsi vedere accogliere le loro pretese.
    Nel  processo  penale  il  p.m.  esercita la pretesa punitiva che
discende   direttamente   dal   principio  costituzionale  (art. 112)
dell'obbligatorieta'  dell'azione  penale.  L'imputato resiste a tale
pretesa,   ed   esercita  il  diritto,  anch'esso  costituzionalmente
garantito (art. 24, 25, 27), di veder dichiarata la propria innocenza
o,  se colpevole, di vedersi irrogata una sanzione equa e conforme al
principio di cui all'art. 27.3.
    L'art. 593   c.p.p.,  come  sostituito  dall'art. 1  della  legge
20 febbraio  2006,  n. 46,  nel  primo  comma  prevede  che il p.m. e
l'imputato  possono  appellare contro le sentenze di condanna, mentre
nel  secondo  comma  consente  a  dette  parti di appellare contro le
sentenze  di  proscioglimento  soltanto nelle ipotesi di cui all'art.
603,  comma 2, c.p.p. ed a condizione che la nuova prova sia decisiva
-  stabilendo  altresi'  che  il  giudice,  se in via preliminare non
dispone  la  rinnovazione  dell'istruttoria  dibattimentale, dichiara
inammissibile l'appello.
    E  per  gli appelli che - come nella specie - sono stati proposti
prima  dell'entrata  in  vigore  della  legge  n. 46/2006, l'art. 10,
comma 2  della  stessa  legge neppure prevede la suddetta deroga alla
inammissibilita' dell'appello contro la sentenza di proscioglimento.
    Benche'  le  citate  norme riguardino sia il p.m. che l'imputato,
cio'  solo  «in  apparenza»  rispetta  il principio costituzionale di
parita'  delle  parti,  essendo  evidente che, in relazione alle loro
contrapposte  pretese,  la sentenza di proscioglimento ha una portata
assolutamente  diversa,  poiche'  stabilisce la soccombenza di quella
del primo e la vittoria di quella del secondo.
    Per  altro  verso,  di  fronte  ad  una sentenza di condanna, che
respinge  la  pretesa  dell'imputato  di  veder dichiarata la propria
innocenza  (e, almeno sotto l'aspetto essenziale, accoglie la pretesa
del  p.m.), l'imputato conserva il diritto di appellare - fatta salva
la  gia' preesistente eccezione di cui all'ultimo comma dell'art. 593
c.p.p.   -,   senza   alcuna  limitazione,  ed  in  specie  senza  la
rilevantissima  condizione  di dedurre ex art. 603 comma 2 c.p.p. una
nuova prova decisiva.
    Tenuto  conto  delle  contrapposte  pretese  delle  parti,  e pur
considerata  la  diversita'  delle  funzioni  dalle stesse svolte nel
processo,  non si ravvisa razionalita' e coerenza, ne' attuazione del
principio  costituzionale  di  parita'  (effettiva,  e  non  soltanto
apparente), tra il riconoscimento all'imputato condannato del diritto
incondizionato di appellare e la preclusione per l'accusa di servirsi
dello  stesso  rimedio  in  caso  di  proscioglimento,  se  non  alla
strettissima condizione sopra indicata.
    Pertanto,  deve  ritenersi - o, quantomeno, non e' manifestamente
infondato  ritenere  - che le norme in questione violano il principio
sancito dall'art. 111, comma 2, della Costituzione.
    Allo stesso modo, non pare infondato ravvisare un contrasto anche
col  parametro costituzionale della «ragionevolezza», quale si ricava
dall'art. 3 della Costituzione.
    Invero, nessun criterio di ragione ne' alcuna peculiare finalita'
riconosciuta dal legislatore appaiono giustificare una disciplina che
squilibra fortemente i rapporti tra accusa e difesa.
    La  irragionevolezza  della introdotta riforma emerge anche sotto
un  altro  profilo. Invero, posto che, nel gia' ricordato «apparente»
rispetto  del  principio  di  parita',  il  p.m.  e  l'imputato  sono
accomunati  nel  diritto di appellare contro le sentenze di condanna,
appare  privo  di  razionale  giustificazione  riconoscere al p.m. il
potere  di  appellare  di fronte ad errori «marginali» della sentenza
(di  condanna),  ed  invece  negarglielo (salvo la limitata eccezione
prevista  nel comma 2 del nuovo art. 593 c.p.p.) di fronte a ben piu'
«sostanziali» errori della sentenza (di proscioglimento).
    Ne'  vale  obiettare  che  altre riforme hanno gia' nel corso del
tempo  ristretto  le  facolta' processuali del p.m. rispetto a quelle
riconosciute all'imputato e che tali riforme hanno superato il vaglio
di  costituzionalita'.  E'  qui il caso di richiamare la formulazione
dell'art. 443.3  c.p.p.  (che  esclude  la possibilita' di appello da
parte  del  p.m.  della sentenza di condanna pronunciata a seguito di
giudizio  abbreviato,  anche  dopo l'eliminazione del presupposto del
consenso  del  p.m.  al  rito  ex  legge n. 479/1999) ritenuta non in
contrasto con la norma costituzionale dell'art. 111 dalla Corte cost.
con  ordinanza  n. 421/2001.  Ma  i motivi che la Corte aveva posto a
fondamento  della  propria  pronuncia  non appaiono estensibili anche
alla riforma attuale; e cio' per piu' ragioni:
        trattandosi  di  giudizio abbreviato, la Corte costituzionale
ha,  in  sostanza, ritenuto che la rinuncia da parte dell'imputato ad
altro  dei  principi  cardine del giusto processo (il contraddittorio
nella  raccolta delle prove) giustifica l'asimmetria che l'art. 443.3
c.p.p.  produce  nel  sottrarre  al  p.m. la facolta' di appellare la
sentenza di condanna a seguito di abbreviato;
        il  predetto  restringimento delle facolta' di appello per il
p.m.  ha  come  presupposto la pronuncia di una sentenza di condanna,
che  e'  pur  sempre realizzazione del principio dell'obbligatorieta'
dell'azione  penale  (restando  frustrata  soltanto  la  sua  pretesa
relativa  al  trattamento  sanzionatorio, pretesa che non e' di rango
costituzionale  e che dunque puo' ben soccombere innanzi all'esigenza
costituzionale di brevita' del processo);
        sostanzialmente differente e' la situazione di diritto in cui
si  cala  la  riforma  di  cui al legge n. 46/2006, perche', in primo
luogo,  sottrae al p.m. la possibilita' di appellare (salvo l'ipotesi
di   cui   s   e  detto)  contro  sentenze  di  proscioglimento,  che
costituiscono  la negazione della pretesa punitiva da lui impersonata
per  conto  dello  Stato;  in  secondo  luogo,  la riforma si applica
indifferentemente  a  tutti i tipi di giudizio, sicche' la introdotta
«asimmetria»  non  trova  alcuna giustificazione che sia riconnessa a
istituti  deflattivi  in  cui  rinunce  dell'imputato  comportino  il
risultato apprezzabile della definizione piu' sollecita del processo.